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I GIORNI DELL'ABBANDONO

regia: Roberto Faenza
Margherita Buy, Luca Zingaretti, Goran Bregovic, Alessia Goria (96')
anno: 2005


Olga, traduttrice professionista, marito ingegnere (Mario), due figli, bella casa al centro di Torino. Ma il destino ha il volto (e le curve) della ben più giovane Carla con la quale Mario sparisce per colmare un “vuoto di senso”… e il mondo di Olga crolla.
La genesi letteraria (questa volta un romanzo di Laura Ferrante) è una costante nella produzione di Roberto Faenza, regista scomodo e insubordinato nei primi anni della sua carriera, poi riabilitato dal mercato a partire dagli anni ’90 quando inizia una escalation notevole: Mio caro dottor Gräsler (tratto da Arthur Schnitzler), Jona che visse nella balena (dall’autobiografia di Jona Oberski); Sostiene Pereira (dal romanzo omonimo di Antonio Tabucchi); Marianna Ucrìa (dal romanzo di Dacia Maraini); L’amante perduto (dal romanzo di Abraham B. Yesoshua); sino ai recenti Prendimi l’anima e Alla luce del sole. Come giudicare, dunque, nella parabola artistica dell’Autore quest’ultimo lavoro presentato a Venezia nell’imbarazzo dei fischi prima, caldeggiato poi durante opinabili e un po’ “di parte” approfondimenti televisivi, rivalutato, infine, nelle sale, dal pubblico dei “non addetti ai lavori”? L’impressione è quella di trovarsi di fronte ad un rassicurante prodotto da prima serata con l’interno neo-borghese, la coppia che scoppia, i bambini che maturano nel dramma, la mamma che “svirgola”, il cane che muore, il vicino straniero (dell’est, ovviamente e musicista, per giunta) che salva la situazione e chiude il cerchio della rinata famiglia. Impressione rafforzata da dialoghi un po’ improbabili (ci sono voluti cinque sceneggiatori), prevedibili soluzioni narrative, prevedibili soluzioni estetiche, imprevedibili (quelle sì ma non ben dosate) incursioni nel metafisico e nel meta-linguistico. Possibile che un regista attento e neanche tanto alle prime armi abbia deliberatamente messo il piede sulla buccia di banana? Forse una giustificazione sta nel voler assumere il “punto di vista” del lacerato e traumatizzato personaggio femminile verso il quale tutto il film è ripiegato, una travolgente (e a tratti debordante) Margherita Buy.

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