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Un appuntamento giornaliero fra critica, commenti, news, gossip e quant'altro ancora direttamente dalla 59a edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia a cura del nostro inviato Alberto Piastrellini

 

04/09/2002 Mercoledì 4 settembre

Incassato con teutonico aplomb lo scandalo Larry Clark, la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si avvia agli ultimi giorni di programmazione “veleggiando” su acque decisamente più tranquille e collaudate; ne è un esempio la scansione di questa giornata che ha visto protagonisti, fra i tanti film proiettati, la seguente quartina: Bear’s Kiss di Sergej Bodrov, nella selezione ufficiale dei film in concorso, Un viaggio chiamato amore, di Michele Placido, anch’esso in concorso, Rosa Funseca di Aurelio Grimaldi e Blood Work di Clint Eastwood, entrambi nella sezione Eventi Speciali.
E incominciamo proprio dall’ultima pellicola del Leone d’Oro alla carriera (2000) Clint Eastwood, che, incurante dei suoi settandadue anni, si butta a tutta forza in un thriller gradevole ma, a tratti, già “visto”. Dal romanzo omonimo di Michael Connelly, Blood Work è la storia di un veterano dell’FBI, in pensione a causa di un trapianto cardiaco, che ritorna in azione per stanare il killer responsabile della morte della donna donatrice, lo stesso killer che, probabilmente, anni prima causò l’infarto all’agente. Personaggi appena abbozzati (e nel cast figurano Jeff Daniels e Anjelica Huston!), sceneggiatura un po’ tirata di Brian Helgeland. I fans dell’intramontabile Clint hanno applaudito comunque.
Tutt’altro spessore la bella pellicola di Sergej Bodrov, Bear’s Kiss. Il maestro siberiano, sbarca a Venezia con una storia d’amore che ha il sapore fantastico di una fiaba nordica. Lola, quattordici anni, trapezista con la madre in un circo russo, è legatissima ad un cucciolo d’orso. Col passare del tempo l’orso cresce finché una notte gli appare nelle sembianze di un ragazzo; l’orso diventerà uomo nel giro di un anno a patto che, nel frattempo, non abbia mai ad uccidere un uomo…È piaciuta al pubblico e alla critica quest’insolita produzione internazionale (Germania, Francia, Spagna, Italia e Svezia) che vede coinvolti anche i nostrani Maurizio Donadoni, Silvio Orlando, Marcella Musso.
Attesissima, sin da ieri sera, con la proiezione speciale riservata alla Stampa, la pellicola di Michele Placido Un viaggio chiamato amore sulla vicenda umana e sentimentale della poetessa Sibilla Aleramo, la cui esperienza terrena viene descritta attraverso un arco narrativo e temporale che va dall’adolescenza alla maturità soffermandosi sul biennio 1916-1918, periodo in cui la donna si lega al giovane e psichicamente instabile Dino Campana. L’idea del film nasce dall’epistolario fra Sibilla e Dino. Sono rimasto colpito e fortemente emozionato da una storia che sentivo anche molto cinematografica, perché offriva la possibilità di visualizzare passioni e sentimenti. In effetti, Placido si sofferma più sulla tormentatissima ed intensa relazione d’amore fra i due scrittori che sulla produzione letteraria, o l’impegno sociale e politico della donna o la malattia, il lavoro poetico dell’uomo che rimangono quasi pennellate sullo sfondo di un “drammone” che ha tanto il sapore di un vecchio sceneggiato per la TV. Né convincono le interpretazioni, un po’ troppo caricate di Laura Morante e Stefano Accorsi, impacciati in costume belle-époque. Ancora una nota di demerito per il suono in presa diretta (o l’impianto audio del PalaBNL quest’anno particolarmente mediocre), che fa perdere parecchie battute.
Molto interessante, invece, l’altro film “evento speciale”: Rosa Funseca di Aurelio Grimaldi; la storia di una prostituta napoletana che dopo vent’anni di meretricio decide di abbandonare la strada e riunirsi al figlio adolescente. Malgrado il tentativo di costruirsi una vita rispettabile, Rosa non riuscirà a sfuggire ad un destino ineluttabile. Girato in uno splendido bianco e nero con la fotografia di Maurizio Calvese, Rosa Funseca ha il sapore e l’impatto emotivo della Tragedia Greca, reso tangibile dall’intensa interpretazione di una grande Ida Di Benedetto.

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