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      RASSEGNA 
        STAMPA  
        a cura del CGS DORICO
      NO MAN'S 
        LAND 
        Cineforum - Michele Marangi 
        Il regista bosniaco Danis Tanovic ha trentadue anni ed è un esordiente. 
        Nove anni fa, quando lo scoppio della guerra lo colse a Sarajevo, era 
        studente all'Accademia di cinema e, come ha detto in diverse interviste, 
        tra la pazzia e la fuga scelse la passione, sotto forma di cinepresa con 
        cui filmare tutto ciò che vedeva per strada. La passione lo ha 
        condotto lontano, fino a vincere il premio per la miglior sceneggiatura 
        all'ultimo Festival di Cannes, ma la guerra lui l'ha vista dal vivo e 
        anche da schierato, visto che è stato pure responsabile degli archivi 
        filmici dell'armata bosniaca. Quest'ultimo dato potrebbe apparire particolarmente 
        problematico per un autore che sintetizza il senso del suo film nella 
        constatazione che la neutralità non esiste, poiché il fatto 
        stesso di non schierarsi presuppone una scelta di campo, che non viene 
        mai completamente celata dall'ipocrita formula del non interventismo o 
        dell'interposizione di una forza di pace (armata, of course). 
        Le premesse potevano lasciar presupporre polemiche simili a quelle suscitate 
        da "Underground", ma fatte le proporzioni tra il richiamo mediatico	
        di Kusturica e quello di Tanovic, ci sembra che già a Cannes la 
        guerra bosniaca dimostrasse ormai di essere stata digerita e rimossa dalla 
        flebile memoria collettiva. Figurarsi ora, dopo le Twin Towers. 
        Ma l'alterità verso Kusturica è resa dal partito preso stilistico 
        e narrativo di Tanovic, che non appare minimamente interessato a ripercorrere 
        la storia del conflitto, né a interrogarsi sui motivi della dissoluzione 
        di una nazione, quanto piuttosto a lavorare sulla messa in scena del conflitto, 
        che a partire dalla contingenza bosniaca sembra mirare ad una riflessione 
        più ampia sull'assurdità bellica. Per rimanere in ambito 
        balcanico, le parentele sono più verso "La polveriera" 
        di Paskaljevic, che utilizzava la teatralità per mettere in scena 
        la quotidianità dell'assurdo in una Belgrado allucinata e allucinante. 
        Il teatro dell'assurdo fa spesso capolino nel film. L'attesa dell'artificiere 
        che risolva la situazione tiene alta la tensione per circa un'ora, salvo 
        poi scoprire che il diIigente soldato tedesco chiamato al compito non 
        può assolutamente fare nulla se non constatare l'impossibilità 
        di disinnescare la mina. I caschi blu della forza internazionale vengon 
        chiamati 'puffi' sia dai bosniaci che dai serbi ed effettivamente sembrano 
        degli eroi da fumetti per l'infanzia, con i loro nomi in codice sproporzionati, 
        con soldati sul terreno che amano atteggiarsi da 'uomini veri' e piccoli 
        gerarchi un po' isterici e molto incapaci, che perseguono un solo obiettivo: 
        impegnarsi perché non succeda nulla, evitare ogni complicazione, 
        schivare ogni difficoltà. I due nemici scoprono presto di essere 
        assolutamente poco convinti del senso della guerra e giungono per un attimo 
        persino a fraternizzare, quando si rendono conto di avere amato la stessa 
        donna, una prosperosa fanciulla bionda di Banja Luka. 
        E non è assurda una guerra in cui ci si sventola in mutande per 
        attirare l'attenzione dei rispettivi eserciti o dove chi parla la stessa 
        lingua è nemico, mentre chi ne parla tre diverse dovrebbe far parte 
        del medesimo schieramento di pace? 
        Beckett aleggia spesso, ma Tanovic a suo modo rilegge anche la tragedia 
        classica, organizzando tutta la vicenda secondo una rigorosa unità 
        di tempo, luogo e azione, nell'arco di un'unica giornata, simbolicamente 
        ripresa dall'alba al tramonto, dopo il prologo in cui la staffetta bosniaca 
        si perde nella nebbia notturna, che rende bene l'idea dell'impossibilità 
        di orientarsi in uno spazio e in un tempo in cui ogni appartenenza o valore 
        sembrano essere pure proiezioni fantasmatiche. 
        E che dire della divisa di Ciki, con quella maglietta su cui campeggia 
        il logo degli Stones, sberleffo e segno di non appartenenza che progressivamente 
        diventa sempre più una prefigurazione di sangue, di ferita che 
        non solo non si rimargina ma si allarga. Oppure del giovane soldato francese 
        che a un certo punto - in un sublime slittamento del senso narrativo che 
        verte su un anticipo sonoro che per alcuni secondi risulta totalmente 
        straniante e incomprensibile - scopriamo intento ad ascoltare musica techno 
        in cuffia, mentre dovrebbe essere concentratissimo nel vigilare sulla 
        situazione sempre più tesa. 
        Un popolo di pazzi, ripetono più volte i francesi dell'Onu, ma 
        lo spettatore a quel punto non sa se condividere lo stupore degli 'europei' 
        di fronte a una lotta fratricida che appare insensata o la perplessità 
        dei 'balcanici' di fronte all'incapacità e all'inutilità 
        di chi dovrebbe garantire la pace. 
        Lo spaesamento del nostro sguardo si specchia viceversa nella precisione 
        dell'assunto di Tanovic, che si dimostra ottimo narratore e appare meritato 
        il premio per la sceneggiatura vinto a Cannes - prima ancora che buon 
        regista. Non si tratta solo della capacità di tenere viva l'attenzione 
        per oltre un'ora e mezza in un non luogo in cui di fatto non accade praticamente 
        nulla, cosa peraltro non così semplice. In questo senso, il film 
        sfoggia dialoghi ben calibrati, ottima gestione dei ritmi narrativi, tra 
        pause e impennate improvvise, attese e scaramucce imprevedibili, oltre 
        ad alcuni spunti capaci di tratteggiare personaggi che lasciano intravedere 
        una loro complessità, pur non spingendo mai sul pedale dello scavo 
        psicologico, non consono ad un apologo, in cui contano più le tipizzazioni. 
        Ma il maggiore pregio del film sta nel continuo slittamento di registro, 
        dal tragico al grottesco, dal realistico al surreale, con la duplice conseguenza 
        di spiazzare regolarmente lo spettatore e di postulare l'impossibilità 
        di una visione uniforme e omogenea sulla complessità del conflitto 
        bosniaco e, ci sembra, su tutte quelle dispute in cui, oltre ogni ideologia, 
        la ragione viene automaticamente avocata a chi ha il fucile in mano, come 
        spiega Ciki a Nino nella prima parte del film. 
        La prima conseguenza, rispetto allo spettatore, permette di evitare al 
        massimo certi clichés, per motivi opposti: nella prima sequenza 
        del nuovo giorno, dopo il prologo notturno, si muore subito, come accade 
        nella realtà, senza alcun preambolo, appena dopo aver aperto gli 
        occhi, senza eroismo, senza senso, sullo sfondo di una splendida giornata; 
        viceversa, i dettagli realistici del corpo minato di Cera, che deve farsi 
        grattare da Ciki, e che deve stare immobile dopo essersi cagato addosso, 
        o mentre chiede di guardare la foto della moglie, ma è anche contro 
        sole, stimolano continuamente una situazione d'imbarazzo spettatoriale, 
        in bilico tra il riso amaro e lo sgomento sincero per una vittima predestinata. 
        Non a caso il film perde colpi ogni volta in cui un registro non trova 
        immediatamente il tono contraddittorio, che sapeva renderlo più 
        complesso e imprevedibile: ad esempio, la caricatura macchiettistica del 
        generale Onu che arriva da Zagabria e gioca a scacchi con la segretaria 
        scosciata, alla lunga risulta monocorde e in certo senso scontata. 
        Lo stesso rischio è spesso in agguato in relazione alla presenza 
        dei reporter, che a un certo punto del film sembrano diventare i veri 
        protagonisti della vicenda e i maggiori indiziati rispetto all'evoluzione 
        tragica di un evento per certi versi banale. Senza raggiungere l'acume 
        analitico di Dante in "La seconda guerra civile americana", 
        in cui il broadcast all news era di fatto il centro di gravità 
        di tutto il film, Tanovic riesce comunque a problematizzare non solo la 
        guerra in sé, ma anche la percezione che se ne ha guardandola da 
        lontano e soprattutto, per interposta persona. l giornalisti qui non appaiono 
        come sciacalli senza scrupoli o superficiali disinformati. Al contrario 
        Jane, la reporter inglese - resa perfettamente da un'ottima Cartlidge, 
        sempre efficace nel modellare figure di contorno che lasciano il segno 
        - appare realmente interessata a sensibilizzare gli sguardi e le coscienze 
        degli spettatori, denunciando l'ipocrisia del non intervento. Non a caso 
        il suo personaggio si specchia nel sergente francese che è disposto 
        ad infrangere le regole pur di aiutare concretamente i soldati nella trincea 
        di nessuno. Le buone intenzioni non bastano, propone amaramente Tanovic, 
        ma anzi lastricano la strada dell'inferno. 
        La guerra trasmessa in tivù, il mito della diretta e dell'aggiornamento 
        continuo che mi fa vedere di più e meglio, viene scientemente divelto 
        dal film, che non si limita a riflettere sull'assurda illusione di poter 
        documentare senza di fatto modificare la realtà che si mostra, 
        ma constata ancora una volta che la notizia è sempre e innanzitutto 
        una merce, che segue regole e traiettorie ben diverse da quelle di chi, 
        volente o nolente, è oggetto di notizia. In un vertiginoso finale, 
        la morte in diretta dei nemici bosniaco e serbo, cui collabora attivamente 
        un puffo della forza di pace Onu, viene superata dalla scoperta del mancato 
        disinnesco della mina, contrariamente a quanto affermato dai caschi blu. 
        Nello iato tra l'ipotetico spettatore televisivo, che ha assistito allo 
        spettacolo della guerra in diretta, e il reale spettatore cinematografico 
        cui si svela la messa in scena di un evento mai accaduto, Tanovic invita 
        a riflettere sulla presunzione di chi produce e consuma immagini accontentandosi 
        di ciò che vede, senza chiedersi cosa resta fuori campo o, ancora 
        di più, ciò che non è possibile mostrare. Problema 
        chiave non solo per un ex-documentarista, costretto sempre a riflettere 
        sulla dialettica tra immagine e realtà, ma anche per chiunque non 
        riesca ad accontentarsi di ciò che promettono le superfici. 
        Oltre ogni realismo di facciata, allora, ben venga il gioco dell'assurdo 
        e del grottesco, dell'ironia e del controsenso, riconoscibili ormai non 
        più come semplici generi narrativi ma come parte fondante della 
        nostra realtà quotidiana (e come si spiegherebbe sennò un 
        presidente del consiglio che proclama in diretta tv la superiorità 
        della 'nostra razza' e il giorno dopo si picca di essere stato frainteso?). 
        Oltre ogni orizzontalità dello sguardo, oltre ogni presunta linearità 
        e ovvietà, 
        resta l'epitaffio toccante dell'ultima inquadratura, mentre il sole sta 
        calando e le tenebre riprendono possesso del mondo: la vertigine di un 
        occhio che si allontana al piombo dal corpo minato di Cera, abbandonato 
        alla sua consapevolezza di essere già morto. Un morto che respira, 
        l'ultimo paradosso. 
      NO MAN'S 
        LAND 
        Il Sole 24Ore - Luigi Paini - 14/10/01 
        È sempre pericoloso guardare negli occhi il puoi accorgere che 
        è uno come te, con i tuoi stessi pensieri e desideri. In guerra, 
        però, al nemico non si guarda più negli occhi. E un punticino 
        lontano, una 'cosa' in grado di ridurti a cosa, un oggetto da eliminare 
        prima che lui elimini te. Solo circostanze eccezionali permettano il contatto, 
        e allora tutte le regole vengono ribaltate. 
        Come accade in "No Mans Land", dell'esordiente bosniaco Danis 
        Tanovic. Uno che è nato a Sarajevo, e che dunque queste perverse 
        dialettiche conosce fin troppo bene. All'improvviso il vicino di casa 
        ti può far fuori da un momento all'altro, tutto precipita in una 
        perversa spirale di furore e odio. Il film parte nella nebbia, che avvolge 
        un gruppo di soldati in marcia notturna verso il fronte. Trincee che si 
        intersecano, confini assolutamente incerti di una terra fino a poche settimane 
        prima vissuta in comune. Un errore di percorso e all'alba la pattuglia 
        finisce proprio in bocca alla parte avversa. Serbi e bosniaci che si azzannano, 
        con i caschi blu dell'Onu (i 'puffi') che li osservano con intollerabile 
        distacco. Ma, in una trincea abbandonata, avviene l'incontro impossibile. 
        Due uomini, feriti e bloccati dai tiri incrociati dei due eserciti. Uno 
        è serbo, l'altro bosniaco. Anzi, sono tre: dopo qualche ora di 
        convivenza forzata, si scopre che un altro bosniaco è vivo, immobilizzato 
        sopra una mina che, al minimo movimento, farà saltare tutti per 
        aria. 
        Una classica situazione di 'peste', un 'laboratorio' perfetto costruito 
        da Tanovic per osservare le dinamiche di uomini-topi presi in trappola. 
        Trionferà l'odio? Sarà possibile far emergere un minimo 
        di solidarietà umana? E come si comporteranno gli inviati delle 
        reti tv internazionali, pronti a cogliere al volo l'occasione di uno scoop 
        sensazionale dal fronte? 
      NO MAN'S 
        LAND 
        Letture - Gianni Canova 
        Se ancora ci s'illudesse sul potere dell'arte in generale, e del cinema 
        in particolare, d'incidere sul processo evolutivo dell'umanità 
        al punto da farle comprendere in modo definitivo l'assurdità d'ogni 
        guerra, allora "No Man's Land" sarebbe il film giusto, uscendo 
        oltretutto in un periodo tragicamente propizio. Purtroppo il pubblico 
        lo snobba, preferendo "Belfagor", e quest'intelligente co-produzione 
        (alla quale, tra gli altri Paesi, ha partecipato anche l'Italia) è 
        proiettata davanti a platee semideserte. Premiato all'ultimo festival 
        di Cannes per la miglior sceneggiatura, scritta dal bosniaco musulmano 
        Danis Tanovic, 32 anni, che del film cura la regia ed è autore 
        anche del tema musicale, "No Man's Land" narra una storia atroce 
        in toni sardonici, talvolta francamente umoristici, che sembrano qua e 
        là mutuati dal Billy Wilder di "L'asso nella manica" 
        (1951). 
        Realtá e finzione 
        S'immagina (ma la situazione è così verosimile da sembrare 
        vera) che, durante il recente conflitto serbo-bosniaco, due soldati della 
        Bosnia, Chiki e Cera, finiscano in una trincea situata esattamente a metà 
        tra i due fronti, in una sorta di terra di nessuno, e siano poi raggiunti 
        da Nino, un'occhialuta recluta serba. Cera, ferito, è stato disteso 
        dal nemico sopra una mina che esploderà nel momento stesso in cui 
        qualcuno tenterà di sollevare il suo corpo. Gli osservatori stranieri, 
        francesi e inglesi, vengono a conoscenza della mostruosa situazione e 
        tentano d'intervenire, ma con micidiale goffaggine e sostanziale indifferenza. 
        Nella trincea, intanto, la convivenza coatta fra i tre militari assume 
        toni di pericolosa incandescenza, malgrado Nino e Chiki abbiano accertato 
        d'avere perfino conoscenze in comune, visto che una compagna di scuola 
        del primo è stata per un periodo la fidanzata dell'altro. Nella 
        spinosa faccenda s'inserisce un'energica giornalista inglese, Jane Livingstone, 
        il cui pragmatismo sconfina spesso nel cinismo (ed è qui che la 
        somiglianza con il vecchio film di Wilder si fa più spiccata), 
        finché un tecnico tedesco si cala nella trincea maledetta, ma soltanto 
        per constatare di non essere in grado di disinnescare la mina su cui giace 
        il ferito, che è in ogni caso condannato a morte. 
        Mentre tutti litigano con tutti, in un intrecciarsi di lingue che evoca 
        l'incubo della torre di Babele, Chiki si fa prendere dall'ira e uccide 
        Nino, ma viene a sua volta ammazzato da un francese. Finirà che 
        scapperanno tutti a gambe levate, militari e giornalisti, lasciando nella 
        trincea soltanto il ferito Cera, tuttora disteso sulla mina ad attendere 
        una fine orribile. 
        I nemici sono ex amici 
        Abilissimo nel passare dal caustico tono iniziale alla successiva concitazione, 
        fino al crudelissimo epilogo, "No Man's Land" mette a nudo l'efferatezza 
        di una guerra fratricida, tra contendenti che parlano la stessa lingua 
        e possono anche essere stati amici, ma denuncia in toni feroci anche l'insensibilità 
        di un mondo che sta a guardare o addirittura specula su questi orrori, 
        facendone uno spettacolo d'intrattenimento con il quale deliziare le platee 
        televisive di tutto pianeta. 
        Questo è l'uomo, sembra dire Tanovic, e questa è la follia 
        che lo annienta. Con le notizie che giungono dall'Afghanistan, "No 
        Man's Land" fa pensare con un senso d'avvilimento alle vittime che, 
        laggiù, avranno già perso la vita, alle armi sempre più 
        potenti che saranno impiegate, all'odio di razza, alla confusione di lingue, 
        al sovrapporsi d'interessi economici, all'avidità di potere, e 
        a tutte le aberrazioni con le quali l'uomo giustifica da milioni d'anni 
        lo sfogo dei suoi impulsi distruttivi. 
         
         
       
         
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